Ogni cosa, nella vita, è valutata non solo in funzione di quello che fa o non fa. Ma anche di quello che ci aspettavamo che facesse.
Quando il governo Draghi si è insediato, il Presidente del Consiglio ha posto l’attenzione sulla riforma dell’IRPEF. Dopo mesi passati nell’attesa, quella a cui stiamo assistendo è non solo inutile, se non dannosa, ma deludente.
Una rivoluzione che si spegne in fretta, con un taglio dell’imposta a un ceto medio sempre più inesistente. Nel governo nessuno è vincitore, quindi nessun deluso. Ma se la destra ha una precisa idea di sistema fiscale- la flat tax- è la sinistra ad essere afona.
Nel mondo si parla di invertire la rotta rispetto a decenni di taglio delle tasse ai ricchi. Quella famosa teoria dello sgocciolamento che era stata propugnata come strada spianata per la ricchezza di tutti si è presto dimostrata come un neanche sofisticato sistema per avvantaggiare chi già aveva. Non a caso, dagli anni ‘80 la crescita è andata sempre di più a favorire il top 10%.
Basti prendere il nostro paese, restringendoci per un attimo a quella che in gergo tecnico è definita “Income Tax”, la nostra IRPEF. Quando l’IRPEF venne istituita, negli anni ‘70 con la famosa Riforma Visentini, l’aliquota più alta era al 72%. Oggi è scesa fino al 43%.
Anche la letteratura scientifica ha stabilito che questo trend è stato dannoso. Uno studio della London School of Economics ha evidenziato come il taglio delle tasse ai più ricchi non ha sostentato la crescita, ma aumentato le disuguaglianze.
Eminenti studiosi come Saez, Zucman e Piketty propongono appunto di invertire la rotta.
Il rischio, però, è che questo ci porti fuoristrada: la sinistra non si può limitare a tassare. Non c’è dubbio che la tassazione sia un capitolo importante, ma l’idea che solo attraverso la tassazione e la redistribuzione si possa raggiungere la crescita economica è illusoria.
Non si può cadere in questo inganno redistributivo. Per comprenderlo, è necessario chiarire che il mercato non è un sistema naturale. Non è una massa che rotola giù da un piano inclinato, seguendo leggi naturali e immutabili. Il mercato è il prodotto delle istituzioni, nonostante per anni si sia sostenuto il primato dei mercati sulla politica. Semmai, è vero il contrario: il primato della politica è tale che può agire in modo tale da lasciarlo ai mercati.
Un esempio è fornito dalle riforme nel mondo del lavoro che hanno interessato l’Europa e in particolare il nostro paese negli ultimi 30-40 anni. A partire dal Pacchetto Treu- ma dal punto di vista sociale già dalla Marcia dei 40 mila- il nostro paese ha flessibilizzato il mercato del lavoro. Secondo le tesi dell’epoca, poi smentite, agire sulla regolamentazione avrebbe permesso alle persone senza lavoro di entrare più facilmente nel mercato- agendo quindi sui flussi e non sugli stock.
Assieme all’indebolimento dei sindacati e della classe operaia, questo ha aggravato il capitalismo straccione nel nostro paese.
Per capire quanto le istituzioni nel mondo del lavoro siano importanti possiamo rivolgere lo sguardo alle socialdemocrazie nordiche. In questi paesi vigeva infatti un sistema di contrattazione collettiva estremamente rigido. Non potendo far competizioni sui salari offerti, le aziende più capaci sono emerse.
Nel nostro paese si parla da tempo di una misura che andrebbe in questa direzione: il salario minimo. L’Italia è uno dei pochi paesi europei a non averlo. Nonostante la discussione spesso sia tecnica- a quanto ammonterebbe questo valore? Secondo Emanuele Felice una stima accettabile per cominciare sarebbero 8 euro, ma appunto si tratta di una questione tecnica- una misura di questo tipo andrebbe nella direzione giusta.